Una premessa

Quando un evento nuovo e inaspettato, di qualsiasi entità e natura, interviene, l’organismo tende a percepirlo, anche solo per un breve momento, come potenzialmente minaccioso. Per questo, mette in genere in atto una risposta di freezing (“congelamento”), analoga a quella che interviene nella sorpresa e nello choc. A livello fisico, questa risposta istintiva, gestita dalla componente arcaica del sistema nervoso autonomo parasimpatico, consiste tra l’altro nel blocco muscolare degli arti, nel trattenimento del respiro e nella mimica tipica della sorpresa (spalancamento degli occhi, talvolta anche l’apertura della bocca), cioè in una reazione di momentanea immobilità. In natura, sarebbe quella più utile a evitare di essere visti da un potenziale e imprevisto predatore.
Questa reazione dura per un tempo generalmente assai breve; è spesso inconsapevole ma comporta, anche sul piano viscerale, molte variazioni (nel battito cardiaco, nel respiro, nella circolazione, negli organi digestivi e via dicendo) e una sorta di analogo momentaneo blocco della capacità delle aree evolute del cervello di operare liberamente. Vi è, in pratica, una contemporanea disconnessione delle capacità di ragionamento più raffinate, in favore della risposta istintiva di salvaguardia più rapida e primitiva di cui disponiamo.
Quanto questa risposta istintiva originaria abbia ripercussioni pratiche – anche insospettabili – nella nostra vita è cosa nota a chi conosce le tecniche di rilascio emotivo rapido, in particolare il FastReset.

Vediamo come questo meccanismo, soprattutto quando reiterato, possa interferire con la capacità critica generale di una persona o addirittura di una collettività, e cerchiamo di capire se ci sono operazioni o rimedi in grado di ripristinare, almeno in parte, le funzioni superiori (capacità di valutazione obiettiva, riflessione razionale, coerenza eccetera).

La dinamica degli choc sulla nostra immagine del mondo

Ogni choc che subiamo mette a repentaglio il mondo come l’abbiamo conosciuto fino a quel momento, obbligando il nostro sistema nervoso e la nostra psiche a ricostruire ogni volta un “nuovo ordine” e un nuovo senso di sé. L’obiettivo è di tenere conto e integrare, d’ora in avanti, nella nostra rappresentazione della realtà, la presenza di eventi simili a quello vissuto come scioccante.
Se una cosa è successa, significa che è possibile, anche se all’inizio non la conoscevamo; se si ripete, allora significa che bisognerà essere sempre pronti a conviverci. L’organismo tenderà a inserire man mano i dati forniti dall’evento inaspettato, spaventoso o ingestibile in una nuova “teoria” su come funziona il mondo e noi stessi; e a cambiare aspettative, prospettive, significato alle nostre sensazioni. L’organismo fa ciò che meglio sa fare: si adatta; la mente, condizionata dagli eventi vissuti e sopravvissuti, contribuirà a creare una nuova narrativa, in grado di reggere l’esistenza e la persistenza della nuova realtà.

A maggior ragione, una serie ripetuta di choc, per esempio di notizie contraddittorie, in grado di minare il senso di fiducia in sé stessi o nel mondo, instillando una sensazione di precarietà, instabilità e sostanziale paura, generano un rapido adattamento.
La ricerca di un senso a quanto accade e di un luogo di nuovo sicuro, reale o simbolico, ci spingono ad acquisire e ad aggrapparci a ciò che ci suggerisce o ha perlomeno la parvenza di autorevolezza.

Così come, da piccoli, nei momenti di confusione o spavento cercavamo rifugio nelle persone adulte, da cui dipendevamo, nelle fasi di elaborazione dello choc la mente primitiva, infantile e dipendente, ci può spingere a cercare appoggio e dati di realtà non tanto nel confronto con la nostra consolidata esperienza, attualmente scossa, ma soprattutto all’esterno, in quello che prima e meglio ci faccia sentire di nuovo che tutto ha un senso, una logica, magari addirittura una finalità positiva e rassicurante. Per ottenere questo prezioso “senso” siamo così, talvolta, disposti a rinnegare le nostre stesse precedenti convinzioni e percezioni, quasi senza accorgercene, se non sono compatibili con quella rassicurazione.

Adattamento e conservazione di sé

L’adattamento non è un processo volontario, né razionale, ma biologico, istintivo e spesso istantaneo. Non saranno, quindi, le nostre cognizioni, né ciò che riconoscevamo come effettivamente reale o affidabile prima dello choc a guidarci ma, a seconda del nostro livello di auto-conoscenza e consapevolezza delle nostre dinamiche emozionali (quanto a fondo siamo in grado di riconoscere le nostre istanze emotive ed egoiche, in sintesi) verremo indotti a dare valore e ascolto a chi o cosa sembra riflettere in quel momento il nostro stesso pensiero, si allinea al nostro vissuto e risponde con più tempestività alla nostra ricerca di assoluta certezza e sicurezza.
Detto altrimenti: lo stress dovuto a situazioni spiazzanti mette in luce chiaramente chi siamo e a che punto della conoscenza di noi stessi ci troviamo. La spinta biologica è mettersi al sicuro e trarre immediato sollievo, delegando alle figure autorevoli e alle informazioni che da loro discendono l’incarico di mettere ordine nello scompaginamento del nostro mondo. Il senso di dipendenza da queste figure o informazioni autorevoli potrebbe far sì che siamo anche disposti a cedere insensibilmente ciò che prima costituiva i nostri punti fermi in nome della minore sofferenza (essere salvati dal caos e dalla paura). Ogni nuovo choc toglie capacità critica e obiettività e intensifica questa necessità di essere salvati da qualcosa o qualcuno di esterno, a cui siamo disposti, in qualche modo, a sacrificare benessere e valori in cambio della sussistenza.

E’ necessario un nuovo choc?

Se avete seguito il ragionamento, avrete anche chiaro che non si può modificare questa situazione semplicemente spiegando o portando argomentazioni razionali, quantificabili o del tutto logiche. Non essendo il meccanismo razionale, è molto difficile convincere qualcuno che è perché sta reagendo a uno choc ripetuto che vede le cose condizionate proprio dall’evento che gli ha smorzato la lucidità e la capacità di valutazione obiettiva, per definizione non emotiva. Se le nuove informazioni che gli forniste contraddicessero troppo quelle recuperate per formarsi un quadro sensato della situazione, se minacciassero le sue nuove sicurezze e i nuovi punti di riferimento, verrebbero prontamente rifiutate e considerate stupide, inutili o dannose.
Non si può, in altre parole, ridefinire velocemente questo adattamento forzato altro che rimettendo il sistema nelle condizioni di cercare un nuovo adattamento. Se, per esempio, arrivasse un nuovo (moderato) choc, stavolta di segno opposto, cioè positivo e in grado di provocare nuova apertura e fiducia, da una fonte considerata autorevole da chi ha subito quelli precedenti, potrebbe segnare l’inizio di una diversa, ulteriore ridefinizione dell’adattamento pregresso. La difficoltà sta nel fatto che tale choc “opposto” non dovrebbe essere troppo violento, cioè troppo antitetico rispetto a ciò che regge l’attuale equilibrio, altrimenti genererà un rifiuto, e che dovrebbe scaturire da qualcuno che viene già visto come totalmente affidabile, altrimenti non produrrebbe nessun cambiamento.

Caos e responsabilità

Ciò che può controbilanciare tutto questo è il mantenere la centratura in sé stessi, l’osservare e riconoscere come nostre – e non dovute meramente ai cambiamenti esterni – le normali e inevitabili oscillazioni nell’umore e nella disposizione d’animo; né si può pretendere di avere il controllo degli eventi o di trovare un punto fermo, univoco, obiettivo e inattaccabile nel mondo attorno a noi, quando è vissuto come caotico. Se ne siete capaci, anche il trattamento approfondito delle reazioni di choc e delle generalizzazioni che il sistema nervoso ha operato può avere il suo peso.
In ogni caso, l’unico punto fermo non può che essere interiore, è chi o cosa fa esperienza del caos e lo sopporta, chi vede coscientemente i propri punti non risolti nel gioco delle parti, chi si interroga costantemente su sé stesso e sulla propria capacità di rispondere agli stimoli o meglio, sulla propria responsabilità.

Il senso di vulnerabilità imperante vuole che cerchiamo disperatamente chi ce lo risolva, un genitore buono che ci dia un’urgente e magica soluzione, qualunque essa sia, anche temporanea, e delle linee guida per stabilire chi è affidabile e chi no, chi ha ragione e chi ha torto, chi è buono e chi è cattivo, per dare sollievo all’instabilità e al senso insopportabile di precarietà. In questo modo, lasciamo che sia la mente primitiva a governarci.
Se, invece, accettiamo la nostra totale e umanissima vulnerabilità e abbiamo il coraggio di andare fino in fondo ad essa, ci accorgeremmo che, alla fine, non c’è niente che vada cambiato o che dovrebbe andare diversamente da come è. Anche se negli attuali frangenti può apparire provocatorio: il mondo è perfetto così, siamo noi che non vediamo questa armonica perfezione e non le rispondiamo.