Molte persone ammettono o sono convinte di avere una dipendenza dai dolciumi. Questa condizione può manifestarsi temporaneamente anche in individui normalmente equilibrati: rianimarsi o consolarsi col cibo, magari dal sapore dolce, e specialmente in periodi di forte stress, è una prassi piuttosto diffusa e socialmente accettata, benché non salutare. In alcuni casi, invece, questa dipendenza può insorgere in persone predisposte a svilupparne anche altre, a causa di una storia personale particolare o traumi passati. Le motivazioni psicologiche, sociologiche e culturali, così come gli effetti medici e le ricadute a tutti i livelli di questo fenomeno, sono complessi e non possono essere riassunti qui. Pertanto, ci limiteremo a riferire alcuni casi specifici, emersi durante percorsi di psicoterapia o elaborati in sessioni individuali, e trattati con la tecnica FastReset® per l’integrazione e la risoluzione rapida degli stati emotivi condizionanti.

I nomi e alcune delle circostanze saranno volutamente cambiati, ma la narrazione seguirà l’esatto procedimento della tecnica durante le sessioni riportate. I meccanismi che abbiamo trovato alla base sono senza dubbio interessanti e meritevoli di attenzione e riflessione da parte di tutti noi.

 

Vivere di caramelle

Luna mi racconta che fa molta fatica a non mangiare dolci, soprattutto caramelle, non appena le si presentano davanti agli occhi. In alcuni periodi della sua vita, per esempio quando preparava gli esami universitari, lontano da casa, poteva vivere quasi solo di quelle! Per lei, il gusto dolce è un “posto sicuro”, una “festa”, e troverebbe difficile immaginare di farne a meno, anzi, impossibile. È l’ultima di quattro figli, tutti nati a breve distanza di tempo. Poiché la nascita e il periodo dell’allattamento sono periodi cruciali per la creazione dei modelli di sopravvivenza che poi diventeranno standard e automatici, e disagi relativi a come si è stati nutriti dalla madre vengono riscontrati in molti casi di disturbi dell’alimentazione, le chiedo se ha informazioni relative a quel momento.

Sa che la madre non aveva tanto latte. Era anche stressata dal doversi prendere cura degli altri bambini, tutti piuttosto piccoli. Di sicuro, non appena fu possibile, la madre dovette integrare la scarsità di latte naturale con quello artificiale, e passare in fretta agli omogeneizzati. Chiedo a Luna (che conosce già la tecnica per averla sperimentata su altri temi) di provare a sintonizzarsi sulle sensazioni che il corpo ha sicuramente conservato nella sua memoria “implicita”, anche se ovviamente non come ricordo cosciente, relative a come si potrebbe essere sentita quella bambina.

Emerge in breve una sensazione di angoscia e di nausea fisica, quasi sentisse insopportabile l’idea di venire allattata. È un vissuto abbastanza comune nelle persone che hanno ricevuto cure precoci non idonee alle proprie esigenze fisiche o emotive, o in chi più tardi ha sviluppato qualche disturbo alimentare. Procediamo quindi con il puntare l’attenzione sulle sensazioni che questo “ricordo” corporeo ha prodotto, ed elaboriamo una frase di integrazione del momento di freezing iniziale (cioè dell’istante in cui avviene un breve blocco neuromuscolare, premessa all’azione istintiva di sopravvivenza) . Questo momento, sempre presente all’inizio di una qualunque risposta emotiva, coincide con quello in cui il cervello emotivo si “accende”, prende il momentaneo comando delle azioni e produce i suoi primi tentativi di risposta alla situazione percepita. Questi sono istantanei, generici e ancora non specificamente rivolti alla lotta, alla fuga, all’esultanza o all’accettazione della situazione (infatti, nel costruire questa prima frase Luna seleziona parole che evocano sia stati negativi che positivi), ma al semplice bloccarsi per evitare il contatto con quanto percepito.

La frase che utilizziamo è la seguente: “Lo sgomento e lo schifo che provo al solo pensiero di essere allattata mi vogliono proteggere da: rifiuto, abbandono, ingiustizia, gratificazione, riconoscimento, sollievo, desiderio, appagamento e da una realtà ingestibile, insopportabile, soffocante, sconvolgente, paralizzante, mostruosa e inconcepibile”.  Segue uno spostamento dell’attenzione sulle mani. Per sicurezza, Luna mi chiede di ripetere la frase, e poi di nuovo attua uno spostamento completo della sua attenzione sulle mani, che vengono così attivate.

Latte e rabbia

Dopo qualche secondo, emerge una profonda, sorda rabbia perché sente che il suo corpo ha dovuto lottare per sopravvivere, anche se non conosciamo i dettagli specifici. C’è comunque predominante un forte disgusto all’idea di tornare in quella condizione, cioè di dipendere dalla madre per vivere. La sente incapace e inadatta, ingenerosa ed egoista. Il suo viso è turbato, versa anche qualche lacrima. Mi dice che nella sua famiglia c’era in generale poco rispetto per lei e per la sua volontà, e che veniva spesso zittita o anche picchiata. Poiché, però, stiamo lavorando su un imprinting più precoce, quindi gerarchicamente antecedente questi episodi – pur gravi, ma successivi – le chiedo se se la sente di proseguire a collegarsi con le sensazioni di allora. Inoltre, quando ci sono più sensazioni o emozioni compresenti o che si alternano velocemente, come in questo caso, dobbiamo sempre pensare che sia ancora presente l’eco di una risposta di freezing, che va cercata e trattata prima delle altre.

Le sensazioni che prova quando immagina di tornare a quel momento sono ora di incredulità e di schifo, perché sente che la madre la forza ad accettare un cibo non “buono”: “L’incredulità e lo schifo che provo perché lei mi forza mi vogliono proteggere da: trappola, angoscia, violenza, forzatura, inganno, impotenza, presunzione e da una realtà ingestibile, insopportabile, stressante, soffocante, inconcepibile e ambigua”. Ripetiamo tutta la sequenza, al termine della quale Luna si sente più libera e forte, ma anche molto, molto arrabbiata nei confronti della madre. “Mi sento forte come Hulk! Come se la mia rabbia mi rendesse invincibile e onnipotente. Solo che ora, se mi riporto a quel momento, avrei voglia di distruggerla!”. Nota bene: Luna in realtà ha un rapporto del tutto risolto e amorevole con la madre, e sa perfettamente che quanto emerge è completamente soggettivo, è la storia come è stata vissuta dal suo corpo e dal suo cervello emotivo di allora. Stiamo, cioè, in qualche modo rievocando un “ricordo” legato all’istinto di sopravvivenza, che ha condizionato le sue reazioni fisiche ed emotive. Il fatto che attualmente avverta una rabbia reale e tangibile nel corpo e che la psiche ne sia coinvolta è naturale, ma sappiamo entrambe che non avrà conseguenze concrete nel loro rapporto.

Decido di lavorare su questa rabbia nel modo che ho visto essere più efficace, cioè a partire dall’istante antecedente all’esordio della rabbia stessa. Questo istante coincide sempre con quello in cui realizziamo che qualcosa è molto diverso da come doveva essere secondo le nostre aspettative o le teorie che avevamo fino a quel momento sviluppato su come il mondo è organizzato e deve rispondere alle nostre azioni. Si tratta, ovviamente, di un momento di freezing, cioè di sorpresa o di smarrimento. Nel caso specifico, non avendo immagini o ricordi coscienti, e non sapendo quindi quando questa rabbia possa essere emersa, chiedo a Luna di essere semplicemente cosciente delle sensazioni fisiche del corpo – che sappiamo corrispondere alla rabbia – e di affidarci alla memoria implicita del corpo stesso, che lavora sempre in modalità atemporale, immaginando di riportarci al momento in cui viene realizzato quanto segue:

“Lo sconcerto e la rabbia che provo perché lei da sempre non si rende conto del male che mi fa mi vogliono proteggere da: trappola, costrizione, violenza, trauma, tradimento di aspettativa, inganno, manipolazione, ingiustizia e da una situazione insensata, insostenibile, irresponsabile, incosciente, ambigua, ingiusta, inaffidabile, vergognosa e non amorevole”. Terminata la sequenza dell’esercizio, Luna commenta: “Il senso di onnipotenza che sentivo poco fa, sotto la spinta di quella rabbia, è scemato. Ora, se torno a quel momento, mi sento debole, ho i muscoli flaccidi, non ho più le forze. Non vorrei arrendermi, ma non ce la faccio fisicamente”. Sembra una resa fisica, benché non del tutto psicologica. La trattiamo così:

“Il mio senso di impotenza perché è tutto inutile vuole che io prenda atto della realtà così com’è, anche se è diversa da come l’avevo immaginata e voluta, e non ho modo di cambiarla; vuole anche che io non sprechi energie inutilmente, ma che le recuperi e ne faccia tesoro, insieme alla mia esperienza, per andare avanti nella mia vita”. Portiamo a termine l’esercizio, che completiamo con una frase di rilascio. Luna ne riemerge molto serena, completamente rilassata. Non c’è alcuna traccia di sconcerto o di rabbia verso la madre, ma prova una benevola neutralità nei confronti dell’evento vissuto. Le cose sono andate esattamente come era possibile per entrambe in quel momento.

Mi spiega lei stessa come, una volta raggiunta un minimo di autonomia rispetto al cibo, potrebbe essersi installata la dipendenza da caramelle. “Non appena sono stata in grado di raggiungere delle caramelle, devo aver stabilito che erano un cibo elettivo, mio, molto più gratificante di quello che la mamma mi ha somministrato i primi mesi – soprattutto, un cibo che non era il suo latte, il suo amore. Ogni volta che mangiavo ciò che mi dava lei, in qualche modo la ferita si riapriva, ma con il “mio” cibo, le caramelle, non c’era questo pericolo. La dolcezza che non mi arrivava da lei me la prendevo da quell’altra parte. In questo momento, osservando le caramelle in questa ciotola, mi sono indifferenti. Il sapore dolce stesso, mi è indifferente”.

Ho ricevuto dal lei un feedback pochi giorni dopo, che confermavano che questo cambiamento si manteneva stabile, con suo grande stupore. La prova del nove arrivò qualche settimana dopo: invitata a una festa in cui campeggiava tra gli altri un tavolino pieno di dolci, Luna mi mandò un messaggio per dirmi che li vedeva come pietanze come altre!

 

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