Normalmente, ad una situazione percepita come instabile, competitiva o non sicura corrisponde, come risposta naturale, l’allarme. Esso prepara il corpo ad un’azione, cioè all’utilizzo di muscoli nella lotta o nella fuga, o ad una qualche reazione potenzialmente salvifica o opportuna. L’allarme modifica il corpo, contraendo i muscoli di alcuni distretti (per esempio degli occhi, o quelli di nuca e spalle), aumentando la pressione sanguigna e il battito cardiaco, modificando il respiro, eccetera; e la psiche, promuovendo l’aumento complessivo della vigilanza e il focus dell’attenzione ristretto all’oggetto che lo ha suscitato. Terminata l’azione a cui ci aveva predisposto, si ritorna nello stato di quiete e, comunque sia andata, alla fine ci si riposa e ci si gode quello che c’è.
Un animale che va a caccia rimarrà attivato solo per il tempo necessario al suo svolgimento ma, alla fine, si porterà nel suo posto sicuro e si godrà la preda, se l’ha presa, o comunque riposerà. Noi, però, siamo capaci di rimanere in stato di allarme per periodi molto superiori alla fisiologia, fino a far credere al nostro stesso sistema nervoso che quella sia la normalità e, di conseguenza, la zona di sicurezza e comfort, benché non abbia nulla di confortevole. Un po’ come nella neolingua orwelliana, in certi casi “la guerra è pace”, e “la pace è guerra”. Per meglio dire: l’allarme fa sentire a proprio agio, mentre il relax è allarmante.
Questa inversione della fisiologia fa sì che potremmo sentirci forti, al sicuro e “sul pezzo” quando in realtà siamo in allarme, dunque in realtà non al sicuro; e, di contro, sentirci a disagio nel momento in cui il corpo ci comunica di avere cessato lo stato di attivazione, contrazione e aumentata vigilanza prodotto dall’allarme stesso, cioè di potersi riposare in quanto è al sicuro.
Si tratta di adattamenti e risposte di sopravvivenza spesso molto antiche e a volte misconosciute. Non c’è, però, nessuna incoerenza in esse; chi ha un po’ di esperienza su come “ragiona” il cervello emotivo sa già che, spesso, l’apparente paradosso è tale solo per la funzione razionale, ma è assolutamente “logico” nella funzionalità e nella logica bio-logica.
Molti casi di ipertensione arteriosa idiopatica o “da stress” hanno una genesi simile, e così si può dire per molti dei cosiddetti disturbi correlati allo stress, dall’insonnia a certe cefalee, ai disturbi funzionali del tratto digerente e così via. Non basta più il weekend o la vacanza per far rientrare i parametri nella norma, perché purtroppo la “norma” si è spostata verso lo stato di attivazione perenne.
Molte persone percepiscono e confondono il momento del rilassamento con l’essere vulnerabili, inermi, in balìa del mondo esterno e degli eventi. Hanno invertito la loro fisiologia, in modo del tutto inapparente e spesso senza averne alcuna consapevolezza. La loro zona di comfort è stare in azione, in allarme e “avere tutto sotto controllo”. Peccato che la fisiologia è fatta proprio di alti e bassi, azione e recupero, grinta e riposo.
Tornando all’esempio dell’ipertensione arteriosa: può capitare che nei primi giorni dall’inserimento di un farmaco efficace nel ridurla la persona si senta più fiacca o addirittura “depressa”: alla luce delle nostre considerazioni, non è necessariamente un problema correlato in modo diretto al farmaco, ma alla sua azione di de-tensione, che può essere percepita come una anomala perdita di energia e di focus, come un’uscita dall’abitudine (inconscia) di sensazione di essere tonici e iperattivi, cioè “normali”.
L’inversione psicologica: un condizionamento potente
Un meccanismo per certi aspetti molto simile riguarda alcune situazioni psicologiche particolari, non sempre facili da mettere in evidenza, ma allo stesso tempo piuttosto diffuse, che costituiscono condizionamenti profondi e solitamente piuttosto antichi.
Per comprenderne la genesi, dobbiamo ricordare uno degli assunti del cervello emotivo: perché una strategia sia considerata benefica e riutilizzabile, non occorre che essa sia stata realmente un fattore chiave per la sopravvivenza, ma è sufficiente che sia stata messa in atto contemporaneamente a qualche altro fattore o stimolo che potrebbe essere stato compatibile con essa e che verrà, da quel momento, riassociato per comporre la strategia di sopravvivenza stessa. Anche se, alla prova dei fatti, questa stessa strategia può poi rivelarsi deleteria, limitante e addirittura fonte di angoscia e di blocchi. Naturalmente, prima avviene questo condizionamento e più utile e attendibile verrà ritenuto dal cervello emotivo stesso.
Faccio un esempio: immaginiamo di essere nati in una famiglia litigiosa, dove l’amore tra i componenti era “condito” anche con gli scoppi di ira di qualcuno. Ovviamente, siamo sopravvissuti, anche se soffrendone, perciò potremmo (il condizionale è certamente d’obbligo), al di là di ciò che ne pensa la nostra componente razionale ed evoluta, percepire che avere scoppi d’ira (nostri nei confronti di altri, o a viceversa, di altri nei nostri) è non solo compatibile con il rimanere vivi, ma addirittura con la possibilità di dare e ricevere amore.
È possibile cioè che, anche se non mi piace affatto, una parte di me non troverà poi così anomalo – per me stessa o per altri, anche al di fuori dell’ambito famigliare – quel certo modo di esprimere rabbia o disappunto, cioè ben oltre la normale soglia di tolleranza. Avrò anche un mio modo istintivo di reagire ad esso, che è come ho fatto nell’infanzia, o come ho visto fare agli adulti. Anzi, questo sarà il modo e il mondo “normale” e per certi versi addirittura inconsciamente rassicurante.
Per il mio cervello emotivo tutto ciò sarà, infatti, assolutamente compatibile con la sopravvivenza, quindi non necessariamente da cambiare o censurare (ricordiamo qui che, per le note dinamiche tra cervello emotivo ed evoluto, anche se la mia razionalità avesse da ridire, si ritroverebbe all’atto pratico con poca voce in capitolo), e addirittura preferibile ad altri stili, in una certa misura. Essendo frutto di un adattamento ormai fisiologico, poi, con ogni probabilità non mi accorgerò fino in fondo di quanto questo stile di espressione emotiva mi condiziona finché non mi confronterò veramente con modelli diversi, e finché la mia capacità di auto-osservazione non mi darà degli indizi. Ma anche questo potrebbe non bastare a farmi cambiare rotta.
Tutto ciò accade perché un elemento percepito come una sfida alla mia sopravvivenza (per esempio, le urla della mamma) è comparso a distanza ravvicinata ed è stato perciò associato ad una risposta emotiva efficace per la sopravvivenza (il bloccarmi impaurita di fronte alle urla materne, o il restare in allarme almeno finché non ho capito cosa si aspettano da me). Poiché sono rimasta viva, per il mio mondo emotivo ogni elemento di quella situazione potrebbe essere esso stesso un fattore prezioso di sopravvivenza, anche se in realtà è tutt’altro, o addirittura è di per sé apportatore di malessere. In altre parole, verranno associati alla sopravvivenza sia la mia risposta istintiva, sia l’elemento stesso a cui ho reagito, perché sono comparsi in contemporanea.
Mi bloccherò, perciò, ogni volta che qualcuno alzerà un poco il tono di voce, anche se questo non mi farà essere felice e mi farà faticare per ottenere certi risultati, ma il mio cervello emotivo mi condurrà sempre a quello, perché si è dimostrato un buon modo di vivere, per lui.
Potrei, addirittura, arrivare al paradosso di percepire ambienti o persone litigiose come più autentiche o rassicuranti di quelle calme e accoglienti. “Chi ti urla dietro in fondo ti ama, chi sembra dalla tua parte ti sta cercando di ingannare”. Questo mi fu detto da una paziente, riferendosi ad una sua profonda convinzione, emersa durante un trattamento, che ha fatto sì che sopportasse per molti anni un capo bizzoso e imprevedibile, senza riuscire mai a trovare la forza di lasciare quel posto di lavoro. Se ho trovato il modo di sopravvivere a una madre urlante, quello è sicurezza. Il contrario potrebbe, invece, essere ignoto, oscuro e anche un po’ pericoloso.
Inversione fisiologica e identità
Di solito, gli stili di sopravvivenza vengono appresi e consolidati nell’età più tenera, quando abbiamo anche una minore capacità cognitiva e, soprattutto, dipendiamo da chi ci alleva e, pertanto, poca o nessuna autonomia di giudizio e di azione. Se sviluppiamo tali inversioni fisiologiche (l’allarme è pace, la pace è allarmante) in quel periodo, esse possono essere addirittura fondanti della personalità e costituire tra i più potenti condizionamenti a cui siamo sottoposti.
Se da quando ho memoria ho sviluppato un senso di eccessiva responsabilità nei confronti dei miei cari, oppure un senso di inadeguatezza (che tra l’altro, come è facile intuire, potrebbero andare a braccetto, perché il primo può condurre facilmente alla seconda, essendo impossibile per un bambino adempiere a tale compito), l’abitudine di sensazioni che accompagna tali condizioni verrà percepita come talmente “normale” da essere confusa con la mia stessa identità. Mi verrà naturale, cioè, descrivermi come quella che “deve tenere su tutti” o come quella inadeguata, qualsiasi cosa faccia e persino qualsiasi risultato ottenga. Per contro, e in modo controintuitivo, se decidessi di smettere questo comportamento, mi sentirei in qualche modo a disagio, non “io”, o sospetterei di non aver capito bene, o che ci sia una qualche trappola tesa da qualche parte.
Durante il trattamento con il FastReset® viene spesso proposto, specie se l’operatore è un terapeuta, di andare in profondità e scandagliare e sciogliere soprattutto gli choc, di qualunque entità, che abbiano messo anche solo momentaneamente il soggetto nella condizione di sentire che la situazione era ingestibile, soverchiante, incomprensibile o totalmente ingiusta. Quando, nel corso di un trattamento riguardante questi ambiti, si palesa questa sorta di inversione fisiologica relativa al proprio funzionamento, e si percepisce che questa sensazione di fondo potrebbe essere cambiata una volta per tutte, spesso compare lo smarrimento che, lasciando andare questa inversione, non sapremmo più chi siamo.
In fondo, è proprio così: se lascio andare un condizionamento fondante, per un attimo potrei credere di vacillare, perché le sensazioni abituali (costrittive e limitanti, ma tanto care al cervello emotivo) potrebbero venire meno, e l’idea è che potrei perdermi con esse. Ovviamente, non succede nulla di tutto questo: è solo un velo o una briglia che cade, e con essa la falsa sicurezza dovuta all’avere costruito una parte della personalità (o per meglio dire, una parte delle reazioni abituali) su una risposta emotiva di sopravvivenza.