di Maria Grazia Parisi

Per soddisfare la curiosità di alcuni colleghi e allievi, narrerò brevemente la storia del FastReset®. Questa tecnica è nata dall’esigenza di avere a disposizione un metodo rapido ed efficace per liberarsi dalle emozioni condizionate, senza appesantire il sistema nervoso, né reprimere le emozioni stesse. Volevo uno strumento che non interferisse nel sistema di valori dell’individuo, mantenendo il più integra possibile la sua autonomia di scelta, cioè che non costituisse un ulteriore condizionamento, seppure a fin di bene, e che gli consentisse, infine, di esercitare il pieno controllo sulla propria esperienza e sul proprio stato di coscienza.

La strada per arrivare a questo è stata abbastanza lunga e tortuosa.
Il mio primo interesse come medico, datato in realtà dall’inizio dell’Università – ma direi presente da ancor prima – ha riguardato le patologie e i disturbi psicosomatici. Il rapporto mente-corpo mi ha sempre affascinato, così come il misterioso passaggio dalla percezione degli stimoli alle diverse possibili risposte fisiche e psichiche. Anche lo studio dell’endocrinologia, specie nei suoi campi di intersezione con la regolazione cerebrale, è da sempre una fonte di altrettanto grande interesse per me.

Come nasce un sintomo?

La nascita di un sintomo psichico o anche, in una certa misura, fisico può avere differenti “storie”: questo perché persone diverse, in fondo, vivono esperienze diverse, anche a fronte di stimoli abbastanza simili.
La maggior parte delle nostre esperienze sono continuamente filtrate e rimaneggiate dalla coscienza, dal subconscio e da esperienze pregresse e interiori; il significato che diamo ad esse – la loro rappresentazione e finanche la loro simbolizzazione – è una delle differenze più significative che possiamo cogliere nel vissuto di ognuno.

Tale rappresentazione e attribuzione di significato (per usare un termine corrente, lo storytelling che illustra la nostra esperienza) ha poi un’influenza decisiva sull’adattamento che l’organismo compie costantemente, alla ricerca di un equilibrio con se stesso, con l’ambiente e con la società. Quello che “raccontiamo” a noi stessi riguardo alla qualità delle nostre esperienze modifica, alla fin fine, il nostro adattamento e comportamento. Un licenziamento o un divorzio possono essere tragedie indicibili oppure la svolta che aspettavamo per rinascere, per fare un esempio. Naturalmente, le esperienze precedenti condizionano grandemente come vivremo e interpreteremo quelle successive. L’origine e l’evoluzione di queste differenze soggettive apre capitoli vastissimi e affascinanti, e il loro studio mi ha spinto sempre in avanti.

I miei primi pazienti cercavano aiuto nella psicoterapia perché la maggior parte di essi riconosceva un legame tra un certo stato d’animo o certe prerogative psicologiche ed i propri sintomi fisici. Fin da subito, per dare una mano a gestire questi sintomi, avevo aggiunto nella mia pratica clinica anche qualche supporto tratto dalle medicine complementari, in particolare la fito-aromaterapia, l’oligoterapia e i rimedi floreali di Bach; questi ultimi, in particolare, hanno svolto un ruolo importante per diversi anni nella mia pratica, come spiegherò in seguito.

A volte, chi soffre per esempio di gastrite riconosce un legame tra essa e la cattiva gestione della rabbia. Tuttavia, alcuni altri soggetti non percepiscono coscientemente l’attivazione fisica allo stomaco conseguente a quella specifica emozione. Per esempio, ho sentito più d’una persona affermare: “So che mi viene mal di stomaco quando mi arrabbio, ma è più forte di me”, ma anche: “Non capisco la sua domanda su che cosa ci sia che non funziona; a mio modo di vedere andrebbe tutto bene, nella mia vita, se non avessi questo disturbo allo stomaco!”. Che fossero consapevoli o meno dell’attivazione emozionale del corpo, entrambe le visioni del sintomo (legato alla repressione dell’emozione nel primo caso e in qualche modo alla sua totale soppressione nel secondo) avevano per me in comune l’innegabile coinvolgimento del corpo stesso in dinamiche “olistiche”, che interessano, cioè, l’atteggiamento globale della persona, il suo modo di porsi con se stessa e con gli altri e il suo modo di vedere il mondo. In altre parole, il complessivo adattamento della persona al suo ambiente.

La questione di come sia più opportuno leggere un sintomo ha, in realtà, una storia ancora più lunga, nella mia vita.
Durante gli ultimi anni universitari e subito dopo la laurea, ho lavorato in un laboratorio di psichiatria biologica, oggi diremmo di neuroscienze. Un’esperienza assai formativa, ma insieme controversa. Ricordo, per esempio (era la seconda metà degli anni ’80) che, analizzando uno studio sui livelli di serotonina in soggetti normali e depressi, mi chiedevo se le variazioni riscontrate tra i due gruppi indicassero che l’origine del problema fosse nella diminuzione della serotonina in sé (come i colleghi più anziani e la soluzione farmacologica spingevano a indicare) o se queste variazioni fossero piuttosto una risposta del cervello per adattarsi a qualcosa.

Il mio dubbio, in sostanza, era: il sintomo depressivo è il problema principale o rappresenta un tentativo di soluzione – magari, per certi aspetti, fallimentare – per adattarsi al mondo? Questa domanda rimase all’epoca senza risposta (veramente, anche senza considerazione) presso i colleghi, aumentando i miei dubbi sul lavoro svolto. E, aggiungo oggi, anche su quanta reale conoscenza e buona fede si possa contare quando la ricerca è sovvenzionata in modo sempre più massivo dai produttori di farmaci anziché dal denaro pubblico.

Dopo tanti anni di lavoro ritengo che, tranne in casi di danno cerebrale effettivo o della presenza di certe patologie, l’alterazione dei neurotrasmettitori che si verifica nei soggetti ansiosi o depressi sia principalmente un adattamento alla vita e all’ambiente sociale così come vengono percepiti e vissuti, anziché un evento spontaneo o casuale – come se, cioè, il cervello “decidesse”, ad un certo punto, di non produrre più una sostanza. E ritengo anche che la genetica, pur avendo un ruolo, non copre sicuramente tutte le possibilità. Piuttosto, credo sia interessante l’intervento degli eventi precoci (chi conosce il FastReset® ne ha la prova) e di una certa familiarità.

Psicoterapia e medicine complementari

Lasciata la psichiatria biologica, il mio interesse si è rivolto del tutto alla psicoterapia. Durante gli anni di formazione, ho approfondito e utilizzato alcuni presidi di medicine complementari, cui accennavo prima, come aiuto in presenza di sintomi fisici, specie cronici. I rimedi che più hanno attratto la mia attenzione furono i fiori di Bach, che iniziai a utilizzare dal 1988 in un’accezione allora inusuale, cioè per correggere gli stati d’animo associati alla presenza di un sintomo fisico.
Dopo alcuni anni di esperienza scrissi anche un corposo libro (Salute e benessere coi fiori di Bach, Sonzogno 1997) in cui spiegavo la logica “psicosomatica” del loro utilizzo, e cominciai anche a tenere gruppi di formazione e seminari su tale argomento.

Sempre dal 1988 avevo iniziato a collaborare con riviste divulgative del settore psicologico e delle medicine complementari, attività che si è protratta per decenni. Allo stesso modo, ho esercitato l’insegnamento riguardo agli stessi temi a colleghi e al normale pubblico in numerosi corsi e conferenze.

Malgrado le indubbie soddisfazioni, rimaneva però sempre in me il pungolo delle mie domande senza risposta, che mi spinse a cercare anche altro. Mi ero infatti perfettamente resa conto che, se si fosse voluto intervenire sul versante emozionale, non si sarebbe potuto fare a meno di lavorare direttamente sul corpo, oltre che sulla comprensione dei meccanismi psicologici sottostanti. Dovevo, insomma, almeno su questo, dare ragione ai miei pazienti quando non si sentivano in grado di controllare le proprie risposte emotive, una volta partite. Il coinvolgimento consapevole e mirato del corpo mi sembrava fondamentale per modificare la sua spinta a reagire in modo meccanico e istintivo, ma a volte fuori luogo o controproducente.

L’imprescindibile lavoro sul corpo

Negli anni successivi – in particolare, tra il 2000 e il 2008, circa – cercai perciò tecniche e pratiche che mi aiutassero a coinvolgere i sistemi biologici nel processo di decondizionamento (tale è primariamente, a mio avviso, la psicoterapia). Incontrai il folto gruppo di tecniche chiamate complessivamente Tecniche Energetiche o Psicologie Energetiche, termine coniato e mantenuto perché le prime di esse utilizzavano soprattutto, come stimolo fisico per regolare il flusso emozionale, punti posti sui meridiani energetici di agopuntura. Una di queste, Emotional Freedom Techniques (EFT), forse la più famosa e diffusa, attrasse maggiormente il mio interesse, tanto che completai la formazione e in almeno un paio di occasioni la insegnai a gruppi di colleghi.

Nel 2007 e 2008 partecipai anche a un master universitario in neuro-fisio-psico-patologia e ad un approfondimento sulla regolazione neuro-respiratoria. Fu una sorta di utile ripasso e aggiornamento sui temi dell’adattamento, della risposta allo stress e della genesi dei disturbi funzionali. Aggiunsi a questi lo studio di lavori scientifici, soprattutto cinesi, che riguardavano l’utilizzo dell’agopuntura nel trattamento dei disturbi d’ansia. Il meccanismo d’azione degli aghi rimane, per una mente occidentale, ancora un po’ incerto, ma l’efficacia è indubbia. Il principio sostanziale che ne ricavai è che durante tale trattamento si ottiene l’inversione del flusso metabolico cerebrale dalle sue zone più primitive (per esempio, le amigdale e certe zone del sistema limbico) alla corteccia prefrontale, sede della capacità di scelte obiettive e mirate, svincolate dal condizionamento emotivo. Questo cambiamento, nei soggetti degli studi, era accompagnato dal sollievo dalla sintomatologia ansiosa e dal recupero della centratura emotiva. Dove potevano gli aghi, avrebbe potuto qualcosa d’altro, magari più rapido e maneggevole?

All’inizio del 2009 avevo tutti gli ingredienti necessari per correggere e riformulare il mio approccio alle tecniche da me conosciute, volte a decondizionare le persone dall’intervento del “cervello emotivo” e del sistema nervoso autonomo – sostanzialmente automatico, e che opera direttamente sul corpo – e capace di aggirare la volontà e le intenzioni. Quello stesso meccanismo che faceva dire ai miei pazienti: lo so, ma è più forte di me!

Una cosa la devo ammettere, infatti: anche se queste tecniche mi avevano messo in grado di risolvere in tempi brevi e in modo assai interessante alcune situazioni, vi erano due ordini di problemi che avevo riscontrato e che, fino a quel momento, non avevano avuto soluzione. Uno era di tipo neurologico, l’altro procedurale.

Qualche problema si presenta

Cerco di spiegarmi meglio: la maggior parte di queste tecniche utilizza la stimolazione di particolari punti di agopuntura, o l’evocazione di riflessi nervosi tramite uno specifico stimolo, per abbassare il tono fisico-psichico dell’allarme o dell’attivazione emotiva. Tutto ciò, mentre il soggetto è esposto ed in contatto con pensieri, memorie e richiami alla situazione che gli ha generato ed è tuttora in grado di generargli stress.

Immaginiamo di rievocare alla memoria un ricordo sgradevole, capace di riportare alla luce un certo disagio o una paura, anche se per un breve momento e in modo molto più leggero dell’originale – e anche se non dovessimo essere in grado di percepire tutte le sfumature dei cambiamenti fisici che tale rievocazione sicuramente produce. Allo stesso tempo, stimoliamo alcuni distretti del corpo che sono in grado di spegnere o modificare la risposta emozionale di paura (viscerale, ormonale e motoria). Cosa succederà, allora? Malgrado il focus dell’attenzione sia ancora sull’evento stressante su cui stiamo lavorando, il cuore non batte più così velocemente, il respiro si calma, il corpo manda segnali di distensione, eccetera. In un certo lasso di tempo, anche molto breve, noteremo che, riportando l’attenzione sul ricordo disturbante rievocato subito prima, potremo ora sentire che quella memoria ha perso una parte del suo potere di stressarci, perché il corpo non sostiene né conferma più, con la sua attivazione emozionale, la consueta risposta a quel disagio.

Qualcosa è cambiato: avvertiamo in qualche modo che, visto che il corpo sembra meno agitato, si può provare a convivere con il ricordo di quell’evento in modo diverso e nuovo. Si è formato come un piccolo spazio di manovra e di scelta tra la risposta emotiva fisica, istintiva, immediata e acritica, e un’altra diversa e possibile visione e gestione della medesima situazione.

Con il corpo che risponde in modo diverso, cioè, ci si può riferire alla memoria dell’evento stressante in maniera alternativa; si può darne una lettura e un’interpretazione guidata stavolta dalla componente superiore della psiche, che ora si può inserire con le sue considerazioni e la sua lucida visione. Le istanze e decisioni della mente superiore, stavolta, avranno efficacia anche sul comportamento, mentre prima tutto il palcoscenico era occupato dall’emozione e dalla sua influenza su psiche e corpo, e dalle azioni e scelte istintive conseguenti.

Quello che prima disturbava e metteva in allarme, ora può essere visto come uno degli eventi della vita; si possono prendere spontaneamente le distanze, si riesce a percepire il contesto e le differenze rispetto all’attualità e si osserva la questione con obiettività; si allarga lo sguardo, si vedono altre soluzioni, si percepiscono altri possibili aiuti, prima invisibili. Si riesce anche a perdonare se stessi e gli altri, di solito – tra l’altro.

Questo era il risultato che molto spesso si otteneva, e che mi pareva già un grande successo. Il problema era però che una stimolazione, specie se ripetuta, non lascia indifferente il sistema nervoso. Esso può infatti adattarsi o abituarsi, cioè richiedere una stimolazione più accentuata per ottenere lo stesso effetto. Allo stesso tempo, può generare, almeno in via teorica, dei cambiamenti imprevedibili, per non parlare dell’affaticamento che a volte può subentrare. Ma l’evenienza più intrusiva e indesiderata era questa: nelle tecniche da me conosciute e praticate, si utilizzavano dei picchiettamenti o leggeri tocchi o altre stimolazioni ritmiche, in grado di rilassare il sistema nervoso, e addirittura di favorire l’emergere di ricordi e immagini anche lontane nel tempo e sepolte nella memoria. A volte, ciò era un vantaggio; altre volte, l’emersione di questi ricordi, anche traumatici, era talmente rapida da non dare il tempo alla persona di prepararsi all’impatto con esse e di farvi fronte; quindi, si potevano avere veri e propri choc da riattivazione di situazioni traumatiche non conosciute o “dimenticate”.

Avrei tanto voluto sostituire la necessità di stimolare ritmicamente il sistema nervoso tramite questa via con qualcosa di più innocuo. Le alternative, per la verità, c’erano, ma erano costituite da tecniche che percepivo come più affini all’auto-ipnosi, e avevo voluto escludere quella tipologia di approccio, meno interessante, per me (avendo peraltro una formazione anche in tecniche ipnotiche), per la minor enfasi sugli aspetti emozionali per come io li percepisco – per così dire, quantificabili e incontrovertibili. Volevo qualcosa di tagliato su misura per le mie esigenze: lavorare sulle risposte emotive condizionate, in modo sicuro e senza produrre altri condizionamenti o autosuggestioni.

L’altro problema era che, molto spesso, ad un certo punto del trattamento, specie nel caso di un auto-trattamento, qualcosa sembrava incepparsi, e il beneficio era solo parziale. La sensazione soggettiva di disagio, cioè, diminuiva, ma non spariva del tutto e la situazione complessiva sembrava, sì, alleggerita, ma molti temi rimanevano tenacemente ancorati a qualche resistenza difficile da risolvere. Come se comparissero improvvisamente dei “blocchi”, spostare i quasi sembrava richiedere molto tempo ed energia e che nella maggior parte dei casi non venivano risolti.

Le mie soluzioni

Il primo problema che cercai di risolvere fu quello di non usare stimolazioni per spegnere la risposta emotiva durante la rievocazione delle situazioni di stress emozionali. Stante quello che conoscevo allora dell’architettura e della fisiologia del sistema nervoso, ricorrere a un’attivazione fisica cosciente, focalizzata, massiva e predominante (quello che chiamiamo lo shift dell’attenzione) fu del tutto naturale. Questa attivazione mi fa stare tranquilla sul versante neurologico, perché impedisce sia l’affaticamento del sistema nervoso che l’emersione brusca di vissuti imprevedibili, che infatti, benché possano talora inserirsi, sono sempre gestibili, essendo il soggetto in trattamento sempre in pieno controllo di sé. L’altro elemento che serve a modulare e guidare la modifica dell’assetto emotivo è l’uso delle formule di integrazione.

Questa tecnica rende infatti in qualche modo possibile il “travaso” o l’associazione di una componente cognitiva (data dalla formula delle frasi di integrazione) a quella emotiva, ottenendo un immediato e mirato aggiornamento della risposta istintiva. Una cosa che in natura è ovviamente possibile, ma con molti sforzi e ripetizioni. La formula di integrazione è precisa e specifica, in quanto non descrive altro che ciò che è già in atto nel corpo, ciò che il corpo stesso si accinge a fare. La componente cognitiva dell’esercizio segna l’ambito in cui il cambiamento si svolge e consente anche di rivalutare il risultato, in tempo reale.

Per quanto riguarda l’altro problema, ovvero l’impossibilità, talvolta, di andare fino in fondo al disagio emozionale, venne risolta una volta accertato quale fosse il meccanismo sottostante. Avere messo al centro del mio interesse non tanto le semplici descrizioni delle sensazioni e dei sentimenti, del tutto soggettivi, quanto le emozioni – programmi biologici di sopravvivenza in grado di modificare istantaneamente il comportamento e le risposte psichiche e fisiche – mi ha permesso in un tempo relativamente breve di comprendere l’origine di questi blocchi e di trovare il modo di superarli. Per fare questo, fu cruciale la scoperta e il rispetto dei due criteri fondamentali emersi dal lavoro pratico con il FastReset®: quello gerarchico, relativo alla sequenza naturale di comparsa delle reazioni emotive, e quello cronologico, riferito all’importanza degli “imprinting”, cioè delle prime esperienze emotive analoghe a quella in trattamento.

La mia prima e unica cavia sono stata io stessa. Queste soluzioni, infatti, sono nate sostanzialmente da una visione e intuizione già abbastanza completa di quello che sarebbe dovuto succedere se le cose che avevo capito fossero state davvero funzionali a ciò che mi ero ripromessa di ottenere. Una volta accertato che il risultato era conforme alle mie aspettative, sono partita con la sua applicazione, avendo già abbastanza chiaro il meccanismo principale. Gli anni successivi di esperienza sono serviti a renderla più fruibile ed efficace, individuando e superando gli ostacoli che ho descritto. Oggi, dopo quindici anni, ritengo che sia un buon metodo per sbloccare e risolvere tante situazioni prima per me difficili da districare, in primis i traumi.

Essere rimasta aderente alla visione biologica delle emozioni è stato, alla fine, di vantaggio per sviluppare una tecnica abbastanza semplice, che permette e anzi incentiva lo spazio cosciente dedicato alle emozioni che abitano il corpo, interrogandone la “logica” sottesa ed infine lasciandole andare, nel rispetto del normale andamento della loro stessa storia e natura.
Tutto il resto è negli altri articoli che trovate sul sito e sui libri che parlano di FastReset®.